Partito di Alternativa Comunista

Le debolezze strutturali dell’imperialismo preannunciano la prossima crisi di Alberto Madoglio

Le debolezze strutturali dell’imperialismo

preannunciano la prossima crisi

 

 

 

di Alberto Madoglio

 

 

 

Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, è abbastanza complicato in economia fare delle previsioni a breve termine. Questo perché sono molti i fattori che possono modificare una situazione che fino a poco tempo prima sembrava abbastanza chiara e definita. È quello che è successo nel 2023, anno in cui, secondo diverse previsioni, avrebbero dovuto darsi buone possibilità di assistere a una recessione, se non globale almeno delle maggiori economie del pianeta, Stati Uniti d’America in testa, mentre così non è stato.
Soprattutto per quanto riguarda gli Usa, il consuntivo dell’anno appena passato non solo ha dato come risultato che la più forte potenza economica mondiale ha evitato la recessione (che avrebbe avuto un effetto negativo su quasi tutte le altre nazioni), ma ha fatto registrare una crescita del Pil abbastanza sostenuta (oltre il 2%).

 

Fu vera gloria?

Ecco quindi che tutti i cantori delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo si sono sbizzarriti a fare gli elogi dell’economia di mercato, della sua capacità di adattarsi alle contingenze in apparenza avverse e del fatto che il capitalismo non è solo l’unico sistema economico oggi presente a livello mondiale - tenuto conto, aggiungiamo noi, che sarebbe bizzarro considerare la Cina un’economia non di mercato - ma anche il migliore che ci possa essere. E, a una prima analisi, si potrebbe essere convinti ad accettare queste conclusioni, considerando il fatto che, nonostante diversi conflitti oggi presenti nel mondo (guerra Russia Ucraina, brutale aggressione genocida di Israele al popolo palestinese di Gaza e Cisgiordania), una nuova recessione è stata effettivamente scongiurata.
Tuttavia uno sguardo più attento consiglia maggiore prudenza e di conservare lo spumante in frigo prima di festeggiare i fasti dell’economia di mercato.
In uno suo post dal titolo «Perché gli Stati Uniti hanno evitato una recessione nel 2023?» (traduzione nostra) l’economista Michael Roberts analizza nel dettaglio il quadro dell’economa Usa nello scorso anno. Aumento delle scorte di magazzino (cioè merce prodotta ma non venduta), aumento dei consumi privati (dovuti però in buona parte all’aumento per spese sanitarie e costo trasporti), incentivi fiscali da parte del governo federale e degli Stati, bilancia commerciale con l’estero positiva (export che supera import) sono alcuni elementi che hanno favorito il buon risultato sopra citato.
Sempre secondo Roberts, alcuni di questi fattori positivi difficilmente si ripeteranno questo anno, mentre altri, strutturali e contingenti, possono far volgere al brutto la previsione di crescita per il 2024. Tra i primi cita il continuo calo dei profitti che porta al calo degli investimenti e della produttività del lavoro. Tra i secondi la fine degli incentivi federali e statali, l’aumento dei salari (comunque al di sotto del valore che avevano prima dell’aumento dell’inflazione) a un ritmo superiore a quello delle produttività citato prima, che spingerà ulteriormente al ribasso i margini di profitto delle aziende, che risponderanno con nuovi attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori. Infine, i fattori che hanno spinto la bilancia commerciale ad avere un saldo positivo dovrebbero ridursi o sparire del tutto.
Da parte nostra aggiungiamo che, se la politica di alti tassi di interesse seguita dalla Federal Reserve dovesse protrarsi per l’anno in corso, potremmo assistere a una serie enorme di fallimenti per le imprese che sono altamente indebitate, così come nuovi casi di fallimenti bancari tipo quello della Silicon Valley Bank avvenuto la scorsa primavera.

 

Se Atene piange, Sparta non ride

Passiamo ora all’altra sponda dell’Atlantico. Anche il Vecchio Continente nel 2023 è riuscito a evitare la recessione. Qui però è opportuno fare alcune precisazioni. Non trattandosi di uno Stato unitario paragonabile agli Usa (al di là della propaganda mainstream che ritiene essere questo il percorso da seguire e che si possa arrivare a una compiuta e pacifica unione politica ed economica in regime capitalista), i risultati delle singole nazioni sono molto differenti tra di loro.
Si va dallo Stato spagnolo che ha visto una crescita del Pil piuttosto sostenuta (2,5% su base annua) a Francia e Italia che hanno avuto aumenti frazionali, fino al caso del vero e proprio motore economico del continente, la Germania, che al contrario ha visto la sua economia contrarsi dello 0,3% (dalle parti di Berlino hanno tirato un sospiro di sollievo perché le previsioni indicavano un calo più sostenuto, e questo la dice lunga sullo stato dell’economia tedesca). Trattandosi della maggiore potenza economica europea e la terza, o quarta a livello mondiale (a seconda delle diverse statistiche che si prendono in considerazione), la sua crisi ha e avrà ripercussioni non solo in Europa ma nel ciclo economico globale.
Nell’insieme possiamo dire che il quadro di quelli che vengono chiamati i fondamentali dell’economia europea si discostano, in peggio non certo in meglio, da quelli americani.
In un quadro in cui la produttività del lavoro rallenta ovunque nei Paesi imperialisti, per il Vecchio Continente tutto questo è accentuato. Tra il 1986 e il 1996 la produttività è cresciuta in Europa del 1,4% a fronte del 1,2 per gli Usa, costituendo l’unico periodo in cui il raffronto è stato a vantaggio del Vecchio Continente. In seguito il trend è mutato, e pare in modo irreversibile: 1997-2007, 1,7%-2,2%; 2007-2013, 0,3%-0,9%; 2013-2019, 0,8%-0,9%.
Il periodo migliore è stato quello che ha coinciso con la nascita dell’Unione Europea e soprattutto con l’ingresso definitivo nel sistema capitalistico continentale dei Paesi dell’ex blocco sovietico, per meglio dire i vecchi Stati operai deformati. Con lo scoppio della crisi del 2007 il sistema è entrato in una crisi che pare senza via di uscita, in cui se armonizzazione tra le diverse economie c’è, è verso il basso, cioè stagnazione o recessione.
Il gap tra le due sponde dell’oceano lo vediamo anche nel valore della produzione per addetto, che nel 1990 era di circa 41.000 dollari per l’Unione europea, 78.000 per gli Usa, per arrivare nel 2021 a circa 60.000 per i primi e 117.000 per i secondi, con un differenziale che è aumentato a partire dal 2007-2008 (nel periodo tra i due contendenti si è inserita la potenza imperialista giapponese) (1).

 

E l’Italia?

Questo è lo sfondo sul quale si svilupperanno gli eventi dei prossimi mesi. In una situazione di debolezza cronica e strutturale, ogni incidente di percorso o ogni intoppo piccolo o grande possono avere enormi ripercussioni. La fine della politica espansiva della Banca centrale europea, che nel 2024 aggiungerà a livelli alti dei tassi di interesse la fine degli acquisti dei titoli di Stato, può rendere impervio, per non dire impossibile, il precorso di uscita dalla crisi (Germania) o la possibilità di evitarla (Italia).
Il perdurare della brutale aggressione della Russia all’Ucraina, così come delle tensioni in Medio Oriente (genocidio israeliano a Gaza e le risposte che a tutto questo danno i suoi avversari nell’area, Iran e Houthi in primis), andranno a colpire maggiormente quei Paesi imperialisti che più sono in difficoltà. Il peggioramento della situazione economica avrà, e in parte sta già avendo, dei riflessi sulla situazione sociale nei differenti Stati.
Da almeno due anni tutta l’Europa è attraversata da lotte, scioperi e mobilitazioni senza soluzione di continuità. La più recente manifestazione di questa situazione, la cosiddetta rivolta dei trattori, è un segnale di quanto la situazione si stia deteriorando e non colpisca solamente, o prevalentemente il proletariato (licenziamenti, tagli allo Stato sociale) ma stia colpendo anche strati importanti di piccola borghesia (per il momento quella del settore agricolo), assumendo sempre più i connotati di una crisi di sistema, in cui il capitalismo, più o meno coscientemente, viene messo sul banco degli imputati: l’alternativa rivoluzionaria appare come la sola in grado di proporre una via d’uscita.
L’Italia, da parte sua, rischia di fare la classica fine del vaso di coccio tra vasi di ferro, ammesso e non concesso sia il ferro il materiale di cui sono fatte le economie del pianeta in questa particolare fase storica. Se lo Stivale è riuscito per il momento a schivare la recessione, il rallentamento economico è stato brutale, a dimostrazione, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che i dati del 2021-2022 sulla crescita erano il frutto di un rimbalzo dopo la crisi del Covid-19 del 2020, non certo di una nuova fase di crescita solida, benessere e prosperità.
Il nuovo Patto di Stabilità, di cui abbiamo parlato in altri articoli (2), impone alle disastrate finanze pubbliche massicce dosi di austerità, delle quali si faranno carico le classi sfruttate e i ceti popolari, non certo banchieri e capitalisti che sono riusciti a fare profitti come mai in passato. Gli oltre 16 miliardi di utili registrati da due colossi della finanza, Unicredit e Intesa, verranno distribuiti tra i soci, che per la maggior parte sono rappresentanti della grande borghesia europea e italiana, mentre l’Ocse ha detto che in trenta anni i salari in Italia sono cresciuti di un misero 1%. A riprova che la crisi non ha colpito tutti allo stesso modo e la cinghia l’hanno dovuta tirare operai, impiegati, infermieri insegnati, precari e disoccupati.
Sono gli stessi ministri del governo Meloni a prevedere che le cose, dal punto di vista della cosiddetta pace sociale, potranno volgere, per loro, verso il peggio se l’instabilità economica e le tensioni internazionali si protrarranno nel tempo. Il ministro Urso è stato molto esplicito, arrivando a dire che c’è il rischio che dopo i trattori ci si trovi a dover affrontare la rabbia di migliaia di operai. Tutto fa presagire che si andrà in quella direzione. La produzione industriale, forse il vero termometro dello stato di salute di una economia, in Italia è crollata di oltre il 2% nel 2023. Alla crisi dell’ex Ilva di Taranto si sta sommando una sempre più probabile crisi del settore automotive, data dal fatto che Stellantis, al di là delle smentite di facciata, si sta apprestando a ridurre ulteriormente la produzione di veicoli nei suoi stabilimenti.
A questo si aggiunga il fatto che milioni di lavoratori hanno il contratto di categoria scaduto da tempo: la stagione dei rinnovi che si avvicina potrebbe essere il detonatore di quella esplosione sociale che padroni e governanti borghesi temono come il diavolo, ma che in realtà è l’unica possibilità che le classi sfruttate hanno per rivendicare una svolta radicale, di 180 gradi, della loro condizione di vita. Il tempo della resa dei conti si avvicina, e nostro dovere è quello di essere al fianco e delle masse operaie, e per proporre loro un’alternativa di classe alla brutalità del capitalismo.

 

Note

  1. M. Tsiapa, «A holistic approach of the labour productivity slowdown in the regions of the European Union», 19 aprile 2023.

2.www.partitodialternativacomunista.org/politica/nazionale/finanziaria-e-nuovo-patto-di-stabilita-potrebbe-andare-peggio

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